L’origine del mondo secondo i Greci – 2di3
2.
IL COSMO DI URANO
Con le nozze di Urano e Gea venne stabilito il primo ordine universale, cui i Greci diedero il nome di Cosmo (“Armonia”). Secondo l’antica tradizione, infatti, Urano fu il primo sovrano assoluto;
egli fecondò la Terra gettando su di essa fertili gocce di pioggia e generò la prima stirpe dei Titani (il nome proviene da Tite, uno degli altri nomi con cui veniva invocata la Grande Madre).
Narra Esiodo che dalla dea Terra, con Urano giaciuta, nacquero dodici figli: l’Oceano profondo, enorme fiume che circonda tutte le terre emerse;
Mnemòsine (la Memoria), Temi (la divina Giustizia), Rea, Giapeto e Crio; Iperione e Teia, dalla cui unione nacquero Helios (il Sole), Selene (la Luna) ed Eos dalle dita rosee (l’Aurora);
l’amabile Teti, sposa di Oceano, che generò la stirpe dei fiumi e le Oceanine, ninfe del mare; Ceo e Febe dalla ghirlanda d’oro, che concepì Leto (la Notte Buia) e Asteria (la Notte Stellata). Dopo di loro
il fortissimo Crono venne alla luce,
di scaltro consiglio,
fra tutti i figliuoli il più tremendo;
e d’ira terribile ardea contro il padre. [1]
Gea ed Urano generarono anche i Ciclopi dal cuore superbo (Stèrope, Bronte ed Arge), dalle forze immani e dalla grande scaltrezza nelle opere, che nelle cupe caverne dei vulcani forgiarono la folgore e il tuono.
Essi erano in tutto simili agli altri dei immortali, ma avevano un solo occhio, di forma rotonda, in mezzo alla fronte.
Ed altri figliuoli nacquero alla Madre Terra e ad Urano: Cotto, Gía, Briarèo, creature di somma arroganza. Cento mani protendevano terribili dalle loro spalle e cinquanta teste crescevano a ciascuno sopra le membra massicce; e forza terribile si aggiungeva al loro orrido aspetto, per cui essi furono detti Ecatonchiri (o Centimani), i giganti dalle cento braccia.
Narrano gli antichi poeti che Urano prese in odio la sua spaventosa stirpe, che sprofondò nei cupi abissi del Tartaro; di ciò si dolse amaramente la sua sposa Gea, che offrì ai suoi figli la possibilità di vendicarsi: ella fabbricò una grande falce magica, per tendere un agguato all’odiato marito.
Tra tutti i figli della Terra, il solo Crono si fece avanti per sostenere le ragioni della madre; mentre Urano giaceva con Gea (“desideroso d’amore incombette e si stese dovunque”[2]), il Titano afferrò con forza la falce dai denti aguzzi e tagliò i genitali del padre;
dal seme di Urano mutilato nacquero altre strane creature: le Erinni potenti (Aletto, Tisifone e Megera), esseri alati dalla pelle nera e dai capelli tramutati in serpenti che perseguitano quanti si macchiano di colpa e di assassinio; la stirpe dei Giganti, splendidi nelle loro corazze di bronzo, con lunghe lance in mano (i cui progenitori furono Alcione, Porfirio ed Encelado).
Secondo alcuni autori, dai genitali di Urano precipitati in mare, presso l’isola di Citera, nacque anche Afrodite (Venere), la bellissima dea dell’amore dalle bionde chiome, da sempre amata e onorata dagli uomini e dagli immortali perché da lei promana il desiderio e il sentimento, il dolce piacere e l’affetto che governa il mondo.
Dopo aver vinto con l’inganno il padre, Crono prese in moglie la sorella Rea (conosciuta nel continente asiatico anche come Cibele e invocata dai Romani come Magna Mater) e salì sul trono di un universo non ancora totalmente plasmato: cominciò così il secondo Cosmo della mitologia greca.
Da quel giorno, tuttavia, il Cielo non si avvicina più alla Terra per l’abbraccio notturno.
[1] ESIODO, Teogonia, ibidem, vv. 137-138.
[2] ESIODO, Teogonia, ibidem, vv. 177-178.
3.
IL REGNO DI CRONO E LA TITANOMACHIA
Qui gladio ferit, gladio perit: chi di spada ferisce di spada perisce, dicevano i nostri antichi; e così il destino delle Moire, potere arcano cui neppure gli dei possono sottrarsi, aveva decretato che quanto Crono aveva fatto al padre un giorno egli stesso lo avrebbe subito a causa di un figlio.
Si racconta che, forse proprio per evitare di essere spodestato da un suo successore, il dio Crono (che i Romani identificarono con Saturno) avesse l’abitudine di mangiare tutti i figli che la moglie Rea metteva al mondo, trangugiandoli uno dopo l’altro.
E così egli ingoiò di volta in volta Demetra (Cerere), la dea dell’agricoltura, che gli artisti raffigurarono spesso assieme al grano e alle messi della terra;
Hera (Giunone), la dea protettrice della famiglia, del matrimonio e del parto;
Hestia (Vesta), dea del focolare domestico, cui i Romani tributarono un culto speciale per il quale erano adibite sacerdotesse vergini (le Vestali, appunto);
Ades (Plutone), futuro signore dell’oltretomba;
Poseidon (Nettuno), destinato a diventare il padrone dei mari. Qualcuno sostiene che, in realtà, fosse l’essenza stessa del dio ad imporre questo comportamento, perché Crono (nome che fu messo in relazione con il greco chrónos “tempo”) era destinato comunque a creare e distruggere senza posa le proprie creature.
Era naturale che a Rea Cibele dispiacesse veder divorare così i propri figli, per cui quando ella ebbe concepito un nuovo figlio chiese consiglio alla madre Gea e riparò sul monte Ida, nell’isola di Creta, dove mise al mondo un altro erede, cui diede il nome di Zeus (Giove).
Rea nascose il bambino e lo affidò alle cure di alcuni sacerdoti che la tradizione chiama Cureti (o Coribanti), i quali suonando e ballando tutto il giorno coprivano i vagiti del piccolo Zeus, nutrito dal latte della capra Amaltea.
Nel frattempo la dea Cibele si recò dal marito e, in luogo del figlio appena nato, gli consegnò una grossa pietra, che Crono trangugiò senza avvedersi dell’inganno.
In breve tempo, Zeus crebbe sano e robusto e dichiarò guerra al padre Crono. In primo luogo, lo costrinse a rigettare i figli che aveva divorato, grazie anche ad un filtro magico che gli era stato preparato da Temi, la dea della Giustizia divina, che era sua zia.
Crono vomitò Poseidon, Ade, Hera, Hestia e Demetra, che essendo immortali erano ovviamente ancora vivi; anche la pietra che era stata mangiata al posto dell’infante Zeus venne restituita ed essa venne posta all’interno di un tempio dove poté essere ammirata e venerata per secoli e secoli, nel luogo più sacro di tutta l’Ellade (antico nome della Grecia): l’oracolo di Delfi.
Zeus liberò le creature che Urano aveva imprigio-nato nel profondo Tartaro (i Ciclopi e i giganti dalle cento braccia), promettendo loro vittoria e fama se si fossero schierati al suo fianco nella guerra contro Crono: questi, con entusiasmo, aderirono alla causa del giovane rampollo del sovrano del cielo e gli portarono in dono il tuono, il baleno e il fulmine fiammeggiante.
Per lungo tempo si combatterono tra di loro le due fazioni, soffrendo grandi pene e affrontandosi gli uni contro gli altri in tremende battaglie.
Lo scontro avvenne tra i monti della Tessaglia, una regione posta nel nord dell’Ellade: da una parte Crono e i suoi Titani dall’alto del Monte Otri; dall’altra Zeus e i suoi fratelli, i Ciclopi e gli Ecatonkiri, dal Monte Olimpo (anche se gli antichi ci tramandano che due Titani, Giapeto e suo figlio Prometeo, parteggiassero per Zeus).
Fu un’epica lotta, che durò per oltre dieci anni: i combattenti si scagliavano tra loro macigni, rimbombavano le valli e le montagne, le folgori di Zeus saettavano in cielo:
questa guerra venne chiamata Titanomachìa ed ebbe fine solo grazie al deciso intervento degli Ecatonkiri, che scagliavano pietre contro i Titani e li ricoprivano di dardi.
Alla fine la vittoria arrise a Zeus e ai suoi seguaci: i Titani vennero sconfitti e rinchiusi nel Tartaro, sorvegliati a vista dai giganti dalle cento braccia.
Per farci comprendere la profondità di questa regione Esiodo ci spiega che il Tartaro oscuro è circondato da un bronzeo recinto e che esso è
tanto sotto la terra
quanto dalla terra il cielo è lontano; […]
ché per nove notti e giorni una bronzea incudine
cadendo dal cielo al decimo verrebbe in terra;
e ugualmente distante dalla Terra
Il fortissimo Atlante, figlio di Giapeto, venne invece condannato a reggere per sempre la volta del cielo, presso la catena montuosa che, in Africa, prende il suo nome.
Il dio Crono venne confinato in un’isola ai margini dell’oceano (anche se ai Romani piacque narrare che il loro Saturno avrebbe riparato in Italia, nel Lazio).
Da ultimo, Zeus dovette fronteggiare l’ultimo dei suoi terribili nemici: Tifeo, un mostro spaventoso dalle braccia forti e dagli occhi che splendevano di ardori di fuoco; cento teste, gli nascevano dalle spalle e da esse provenivano terribili suoni:
a volte la sua voce era comprensibile agli dei, ma spesso era simile al muggito di un toro, al ruggito di un leone, all’abbaiare di un cane o ad un sibilo; la parte inferiore del suo corpo era simile a due serpenti attorcigliati tra di loro. [2]
Costui si era ribellato a Zeus e sarebbe diventato il signore dei mortali e degli immortali se il nuovo padrone del cielo non lo avesse sfidato scagliando le sue folgori contro quell’ultimo avamposto del Caos.
Inizialmente, Tifeo sembrò avere la meglio; avviluppando il suo avversario con le spire dei suoi serpenti, riuscì a tagliargli i nervi e a rinchiuderlo in un antro oscuro della Cilicia, in Asia Minore. Le divinità dei boschi accorsero però in aiuto di Zeus: lo trassero dalla grotta in cui era stato rinchiuso e riuscirono a curarlo.
Zeus montò sul suo carro trainato da cavalli alati e inseguì il mostro; colpendolo ripetutamente con i suoi fulmini, riuscì infine a seppellirlo sotto la montagna dell’Etna, da dove ancora oggi Tifeo tenta di liberarsi provocando eruzioni e terremoti.
Cominciò così la terza e definitiva fase del regno degli dei: quella della sovranità di Zeus.
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