La guerra di Troia – 2di9
3.
Il giudizio di Paride
Per dirimere la controversia, sorta durante le nozze di Teti e Peleo, su chi fosse la più bella tra le dee dell’Olimpo, Zeus ordinò a Hermes (Mercurio), il messaggero degli dei, di condurre Hera, Pallade Atena e Afrodite da Paride, un principe troiano che trascorreva la propria vita umilmente come un comune pastore, ignaro delle proprie origini.
Il giovane era stato abbandonato appena nato, poiché la madre Ecuba (sposa del re di Troia, Priamo) prima di partorire aveva avuto un terribile incubo: aveva infatti sognato di mettere al mondo una torcia, che aveva dato fuoco all’intera città; gli indovini interpretarono quel presagio come un segno premonitore, profetizzando che il nascituro sarebbe stato la causa della rovina del suo popolo.
Questa fu la ragione per cui la famiglia reale decise di abbandonare alla nascita il principe tra le aspre montagne circostanti, dove tuttavia il piccolo venne ritrovato da un pastore, che decise di allevarlo come un figlio[1].
Quando Hermes e le tre dee apparvero davanti al giovane, Paride stava facendo pascolare come suo solito il suo gregge e non si aspettava certamente di dover fare da arbitro in una disputa tra divinità.
Il messaggero degli dei consegnò al figlio di Ecuba la mela d’oro scagliata dalla dea Eris con tanta rabbia, chiedendogli di consegnarla a quella che gli fosse apparsa come la più bella di tutte.
Poiché Paride non sembrava in grado di dare un giudizio nell’immediato, ciascuna delle tre divinità si avvicinò di soppiatto al principe troiano per promettergli doni preziosi in cambio della consegna del frutto della discordia.
Pallade Atena gli offrì la sapienza e la invincibilità in guerra, mentre Hera avrebbe garantito a Paride il potere politico e il controllo su tutta l’Asia, qualora fosse stata dichiarata la più bella tra le dee; Afrodite, invece, gli promise l’amore della donna più bella del mondo.
Paride, d’impulso, consegnò la mela d’oro alla dea Afrodite e fuggì via per non incorrere nell’ira delle due divinità che non aveva favorito.
Hera e Pallade Atena tornarono nell’Olimpo, sdegnate e desiderose di vendetta: da allora, esse furono acerrime nemiche di tutta la stirpe troiana, mentre Afrodite ne divenne, da allora, la protettrice.
Del resto, la dea Afrodite aveva anche più di un motivo per essere legata alla città di Troia, in quanto tempo addietro si era invaghita del giovane Anchise, figlio di Capi, un nobile appartenente ad un ramo collaterale della famiglia reale troiana, e aveva con lui generato un figlio cui venne il dato il nome di Enea; di questo rampollo dovremo parlare più diffusamente in seguito, in quanto destinato ad essere il capostipite di una importante dinastia.
La storia d’amore con Anchise non venne tuttavia gradita molto nell’Olimpo, anche perché il padre di Enea si era spesso vantato in pubblico della sua unione con la dea; ciò gli valse l’ira del sommo Zeus, che gli scagliò rabbiosa-mente addosso uno dei fulmini forgiati dai Ciclopi, rendendo il figlio di Capi zoppo per il resto della sua vita.
In seguito, il giovane Paride si recò nella città di Troia, perché gli araldi del re avevano portato via il suo toro migliore per darlo in premio al vincitore di alcune gare sportive.
Per riuscire a riprendersi l’animale, Paride decise di partecipare ai giochi atletici e riuscì a vincere ripetutamente tutte le gare superando gli altri contendenti e meritando così il premio tanto ambito. I giovani troiani, umiliati da quella sconfitta, meditarono di ucciderlo ma non riuscirono a portare a compimento il loro piano perché Cassandra, figlia del re Priamo, riconobbe in lui il fratello abbandonato in tenera età.
Priamo, commosso per aver ritrovato il figlio che credeva ormai perduto, decise di accoglierlo nella famiglia reale, nonostante gli indovini gli avessero consigliato caldamente di non farlo[2].
A questo punto, l’autore sente il bisogno di spendere qualche parola in più sulle origini della casata di Paride e della città di Troia, che tanta importanza è destinata ad avere negli eventi che seguiranno.
Le origini di questa città si perdono, neanche a dirlo, nella leggenda: si racconta, infatti, che il primo insediamento umano nella regione, nota in seguito come Troade (quella parte dell’Asia Minore sita in prossimità dello stretto del Bosforo e dei Dardanelli, allora chiamato come Ellesponto), si fosse stabilito lì sotto la guida del mitico Teucro, da cui presero il nome tutti gli abitanti di quella che era destinata a diventare una fiorente comunità (Omero è solito, infatti, dare loro l’appellativo di Teucri).
Sembra invece che le fondamenta della futura città di Troia venissero erette dal genero di Teucro, Dàrdano (che ne aveva sposato la figlia Bateia), il quale divenne il capostipite della famiglia reale.
A Dàrdano succedette quindi Erittonio e poi Tròo (da cui deriva il nome della città), che trasmise il trono ai figli Assaraco e Ilo; quest’ultimo, noto per avere costruito la rocca della cittadella, cuore del centro urbano e dimora della famiglia reale nonché sede degli edifici di culto più importanti[3], viene citato anche per aver generato un figlio dalla fama a dir poco discutibile.
La storia di Laomedonte, figlio di Ilo, è infatti legata ad una serie di episodi, tutti contraddistinti dal mancato rispetto della parola data…
Si racconta, al riguardo, che il re di Troia volesse ricostruire le mura della città e che, per questo, si fosse messo alla ricerca di artigiani provetti e fidati. Il caso volle che, a presentarsi da lui per realizzare cotanta opera fossero nientemeno che due divinità: Poseidon (Nettuno), il dio del mare, e Apollo (Febo), il dio del sole.
Laomedonte fu onorato della proposta dei due numi e concordò ben presto il giusto compenso per la realizzazione di quell’opera immane.
I due dei, con l’aiuto del fedele Eaco (padre di Peleo, di cui abbiamo già parlato nel capitolo 2), riuscirono ad edificare le mura più superbe e maestose che il mondo avesse mai visto; essendo state costruite da due immortali, esse erano pressoché indistruttibili[4].
Quando, tuttavia, Apollo e Poseidon si presentarono dal re a reclamare il compenso pattuito, Laomedonte si rifiutò di consegnare quanto aveva loro promesso: per puro caso, infatti, egli era venuto a scoprire che i due numi non si erano presentati di loro spontanea volontà per la costruzione delle mura, ma erano stati inviati lì da Zeus in persona.
Il tiranno del cielo aveva inteso umiliare in tal modo l’arroganza dei due dei dell’Olimpo, che avevano osato mettere in discussione l’autorità del figlio di Crono.
Il re Laomedonte ritenne che nessuna ricompensa fosse dovuta per quello che, in realtà, era una punizione inflitta ad Apollo e Poseidon e congedò in malo modo i due immortali.
Orbene, se il buon Apollo fece buon viso a cattiva sorte e se ne andò senza particolare rancore, altrettanto non si può dire della reazione del signore dei mari, che inviò un mostro marino a devastare le coste della Troade.
La popolazione era letteralmente terrorizzata da questa terribile creatura, che divorava tutti i malcapitati che incontrava durante le sue scorrerie. Ormai nessuno osava mettere il naso fuori di casa durante l’oscurità e in molti temevano per la propria incolumità persino di giorno.
Il caso volle che, a passare da quelle parti vi fosse il fortissimo e coraggiosissimo Eracle (Ercole), figlio di Zeus e Alcmena, noto in tutto il mondo allora conosciuto come eroe impavido ed uccisore di mostri.
Il re Laomedonte scongiurò Eracle di liberare la Troade da quel flagello e gli promise in cambio una pariglia dei suoi cavalli, tra i più belli al mondo.
Eracle accettò l’offerta del re di Troia e affrontò con coraggio il mostro marino, di cui ebbe ragione senza difficoltà: un’impresa da nulla, per chi aveva già combattuto con creature come il Leone di Nemea, l’Idra di Lerna e il gigante Anteo…
Evidentemente, però, il re dei Teucri doveva aver preso gusto a non rispettare la parola data, tanto è vero che ancora una volta si rifiutò di consegnare quanto pattuito[5].
Eracle, tuttavia, non era disposto a mandare giù questa umiliazione tanto facilmente: in poco tempo, egli radunò un esercito e si preparò a mettere la città a ferro e fuoco.
Ad aiutare l’eroe in questa impresa furono due fratelli, Peleo e Telamone, di cui abbiamo avuto occasione di fare cenno nel capitolo precedente.
Si racconta che, prima di partire per la spedizione contro Troia, Telamone avesse chiesto ad Eracle di avvolgere il figlio Aiace, appena nato, nella pelle di leone con cui il figlio di Alcmena era solito vestirsi: in tal modo, il padre sperava che una parte della forza vitale di Eracle potesse trasmettersi al piccolo.
La leggenda narra che il figlio di Telamone crebbe forte e vigoroso e fu anch’egli protagonista delle epopee che andremo a narrare con il nome di Aiace Telamonio.
Inutile aggiungere che, sotto l’impeto ed il vigore di Eracle, la resistenza dei Troiani fu vana: la città venne presto espugnata e completamente distrutta.
La famiglia reale venne massacrata, compreso l’infame Laomedonte; a salvarsi fu solamente la di lui figlia Esione, che fu risparmiata per intercessione di Telamone, il quale si era invaghito della bellissima principessa (dalla passione tra i due nacque un figlio al quale, in ricordo delle sue origini, venne dato il nome di Teucro).
Esione implorò Eracle di poter riscattare almeno il più piccolo dei suoi fratelli, Podarce, e il figlio di Alcmena acconsentì, in cambio di una magnifica tela che la giovane figlia di Laomedonte aveva avuto modo di tessere e decorare con le sue mani; fu così che Podarce ebbe salva la vita e prese il nome di Priamo, che nella lingua degli Elleni[6] significa appunto “il riscattato”.
Toccò a Priamo l’onere di rifondare la città di Troia e di riportarla all’antico splendore, allietato da una splendida e numerosa famiglia reale (si narra che la moglie Ecuba e le sue concubine gli dettero più di cinquanta figli, tra cui il valoroso Ettore e l’infelice Cassandra).
[1] Non è inutile osservare come il ritrovamento di un fanciullo abbandonato, spesso di nobili origini o comunque destinato ad un futuro importante, sia uno schema tipico della storia leggendaria: da Sargon il Grande, il re di Akkad, al Mosè biblico, da Edipo, re di Tebe, sino ai gemelli Romolo e Remo.
[2] La storia di Cassandra merita senz’altro di essere raccontata, sia pure per sommi capi, anche per la rilevanza che avrà questa figura nelle storie che seguiranno. Figlia di Priamo, Cassandra aveva suscitato l’ardore del dio Apollo, che per ottenerne i favori le conferì il dono della profezia; essendo stato respinto, il dio la maledì e sancì che Cassandra avrebbe mantenuto il dono di predire il futuro, ma sarebbe stata destinata a non essere mai creduta.
[3] Stiamo parlando appunto della rocca di Ilio, che viene rievocata nel titolo del primo dei poemi attribuiti ad Omero (l’Iliade).
[4] In realtà, vi era un’unica parte delle mura che poteva essere scalfita da un assedio ed era quella costruita dal solo Eaco, il quale – in quanto mortale – non poteva competere con la perizia di due divinità. Inutile aggiungere che fu proprio il tratto edificato da Eaco ad essere distrutto per primo durante la guerra di cui parleremo in seguito…
[5] La trista reputazione del figlio di Ilo divenne proverbiale nell’antichità; la regina di Cartagine, Didone, nell’accusare Enea di tradimento, lo aggredirà etichettandolo in modo sprezzante come “stirpe di Laomedonte”.
[6] Antico nome dei Greci.
4.
I pretendenti di Elena
La nostra storia si sposta ora nella città di Sparta, la capitale della regione della Laconia[1], dove regnavano Tindaro e sua moglie Leda.
Si racconta che Leda fosse una donna talmente bella da far invaghire di sé persino gli dei dell’Olimpo; il padre di tutti gli immortali, Zeus, la sedusse infatti prendendo le sembianze di un cigno e trasformando anche l’amata in un bellissimo esemplare dell’uccello palmipede; Leda partorì quattro gemelli (due maschi e due femmine): Castore e Clitennestra (figli di Tindaro), Elena e Polluce (figli di Zeus)[2].
Dei due maschi, Castore e Polluce, si racconta che essi erano pressoché inseparabili; noti in tutto il mondo antico come i Dioscuri, assieme compirono grandi ed audaci imprese (come l’impresa degli Argonauti e la caccia al cinghiale calidonio), tali da meritarsi fama imperitura.
Essi dovettero anche soccorrere la sorella Elena, rapita quando era ancora una fanciulla da Teseo, re di Atene, e dal suo inseparabile amico Piritoo; i Dioscuri riuscirono a trarre in salvo la figlia di Zeus e di Leda ma non perdonarono mai questo sgarbo al sovrano di Atene e fecero di tutto perché fosse un giorno spodestato dal loro fedele amico Menesteo.
Altro non vogliamo raccontarvi dei gemelli, il cui culto fu particolarmente sentito nella città di Roma, se non questo aneddoto che tanto piacque all’Autore quando sfogliò per la prima volta i suoi libri di mitologia.
Dopo aver avuto un diverbio con i cugini e rivali Idas e Linceo, degenerato in una sfida all’ultimo sangue, rimase in vita il solo Polluce che – in quanto figlio di Zeus – aveva ricevuto il dono dell’immortalità, mentre Castore venne chiamato a far parte del regno dei morti; non volendo negare al gemello la possibilità di vivere ancora, Polluce scongiurò Ade, il signore dell’oltretomba, di concedere una qualche grazia per l’amato fratello, mostrandosi disposto anche a rinunciare alla propria vita.
Ade si commosse per l’amore che legava tra loro i due Dioscuri e decretò che entrambi meritassero clemenza; egli concesse pertanto ai fratelli di rimanere nel regno dei vivi a turno; per questo, per un giorno Polluce dimorava nella casa dei morti, mentre Castore conduceva la sua esistenza tra i vivi; il dì successivo, invece, i due gemelli si scambiavano i ruoli. Così i fratelli si avvicendarono per anni sino a quando non vennero assunti tra le divinità olimpiche.
Diversa storia, invece, dobbiamo narrare per le due figlie di Leda.
Crescendo, Elena divenne sempre più bella e si meritò la fama di essere la donna più affascinante del mondo allora conosciuto; quando giunse in età da marito ella attirò alla corte del re Tindaro una moltitudine di pretendenti desiderosi di prenderla in sposa.
Il re di Sparta si trovava in grande imbarazzo, ben sapendo che, dovendo scegliere come genero uno solo tra quanti aspiravano alla mano di sua figlia, si sarebbe sicuramente inimicato tutti gli altri…
Infine, fu uno dei pretendenti a proporre un piano per risolvere il dilemma: Odisseo (noto nel mondo occidentale come Ulisse), figlio di Laerte e re di Itaca, la cui astuzia era destinata ad essere nota in tutto il mondo antico.
In cambio dell’appoggio di Tindaro per ottenere in sposa la bella e saggia Penelope, figlia di Icario e nipote dello stesso re di Sparta, Odisseo propose il seguente stratagemma: Elena avrebbe potuto scegliere il marito in piena libertà, ma tutti i pretendenti vennero prima costretti a giurare solennemente, dopo aver sacrificato un cavallo agli dei, di rispettare la scelta della figlia di Zeus (qualunque marito venisse scelto) e di difendere la vita e i diritti di chiunque fosse diventato lo sposo di Elena, anche a costo della vita.
Alla fine venne scelto come marito Menelao, figlio di Atreo, membro della stirpe regale di Micene; in realtà sembra che quest’ultimo non si fosse presentato in prima persona come pretendente ma si fosse fatto avanti in suo nome il fratello maggiore Agamennone.
Menelao aveva promesso di sacrificare cento buoi ad Afrodite se avesse avuto in moglie Elena (questa forma di sacrificio era nota nell’antichità come “ecatombe”) ma, non appena seppe di essere il prescelto, dimenticò la promessa fatta, provocando l’ira della dea.
Vennero così celebrate le nozze tra Elena e l’Atride, destinate ad arrecare tanta sventura agli Elleni; il fratello di Menelao, Agamennone, si unì invece in matrimonio con la figlia di Tindaro, Clitennestra.
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