IL FIUME E IL DESERTO – Parte sedicesima: Fantasmi dal passato

Giugno. Anno del Signore 1530.

Fu come se una lunga notte stesse finendo. Ma anziché un’alba e un’aurora, il mattino splendette di colpo mostrando un sole nascente, dorato, apparso all’improvviso, come se qualcuno avesse acceso un lume.

Pian piano, in un attimo eterno e senza tempo, l’astro all’orizzonte si rivelò non solo dorato, ma di oro vero, come scolpito, immagine di qualcosa che voleva soltanto rappresentare.

Il vero sole, quello che illuminava il mondo non aveva soltanto sette raggi. Ciononostante, Silvana captò la confortante presenza, come rappresentante della Luce. La Luce vera, subentrata alla tenebrosa notte che sembrava essere durata in eterno. Giorni?

Si accorse di non essere sola. Pur trovandosi in uno stato di come dire, eterno sogno, e in un luogo e al contempo nessuno, captò la compagnia spirituale di, quanti erano? Due, no, tre persone che stavano compiendo il viaggio astrale assieme a lei.

Si stava sbagliando, il viaggio era stato fino a ora una spedizione agli inferi, e solo ora i suoi compagni la stavano portando fuori dall’Ade o dall’Inferno. Anna, sì una era sua figlia. Captò la sua presenza e piano piano il suo volto si materializzò davanti, sempre con il sole all’orizzonte come sottofondo.

Come lei stessa, sua figlia sembrava non avere corpo, o almeno, contatto con esso. Ciononostante, sapeva che il corpo di lei le era vicino fisicamente, anche se, come dire, staccato dallo spirito. Alla figlia si affiancò una figura dalla pelle rossiccia.

Luna D’argento si stagliò anch’essa davanti al sole dorato. A lei si unirono ben presto Fiona e Gudrun oltre alla consapevolezza che anche le altre sensitive erano nelle vicinanza col corpo. La gioia di Silvana divenne per un attimo terrore quando una nuova  immagine apparve, accanto a quella delle compagne.

Prima gli occhi, due nerissimi soli neri che, ricordò all’improvviso, erano stati capaci di gettarla nel baratro della tenebra. O forse si sbagliava? E quelli erano solo quelli di una sosia o gemella di colei che l’aveva ridotta in quello stato.

Sì doveva essere così perché quella figura esattamente uguale alla perfida sovrana d’Egitto si stava mostrando in un volto dall’aria benevola, anche se fiera. Le stava leggendo nello spirito, e captava le sue vibrazioni positive. Serva della Luce. E il suo corpo era anch’esso vicino fisicamente. E anche il talismano lo era.

Lo captò, consapevole che fosse al collo di Atena. Purtroppo non captò l’amica. Era normale, perché lei non aveva il contatto coi Messaggeri. Era solo la portatrice del talismano. Qualcuno mancava, qualcuno molto caro.

Durante quel sonno insano, pure nel buio, la presenza di suo padre, anche se invisibile a causa delle tenebre, era stato un calore nel gelo spirituale. Ma ora non c’era più. Sapeva che il suo corpo era sempre stato nelle vicinanze, ma ora al suo posto regnava un vuoto.

Alla spiacevole sensazione che qualcosa di amato le fosse stato strappato si aggiunse la consolazione, mera invero, come di uno schermo che fino ad allora aveva impedito a una lampada di illuminare e fosse stato asportato. Ora lei vedeva per via dell’assenza di Fioravante. Avrebbe preferito mille volte rimanere cieca ed averlo accanto anziché poter scorgere la mancanza. La cosa non le piaceva, ma sapeva, in qualche modo che forse era giusto così.

Lo spirito si unì al corpo, che si svegliò. Il sole scomparve; al suo posto c’erano delle sbarre. Si trovava in una cella ed era sdraiata in un giaciglio di pietra. Si alzò a sedere. Come delle  morte risorte, la mexica, la danese, la scozzese e la sua amata figlia si ersero dalle tombe, come Lazzaro.

Accanto a lei, Atena dormiva ancora con il talismano al collo. Saltò giù camminando tra i sarcofagi. Fulvia giaceva priva di coscienza come sua madre. Una delle casse pietrose era vuota. Un’immagine trascorsa le passò in testa: in quella aveva giaciuto, solo poco prima, suo padre. Un concetto mentale le passò nella testa. Qualcuno le stava trasmettendo immagini di qualcosa avvenuto da poco.

Iside che apriva la porta della cella inserendo l’anello al dito in una serratura e ordinava a due beduini di afferrare Fioravante. Fu come se l’immagine fosse stata viva e i suoi occhi si riempirono di lacrime alla vista, anche se non reale, del suo amato genitore condotto via a forza dagli sgherri di quella perfida donna.

L’immagine svanì ma non la consapevolezza che le fosse stata inviata dalla gemella di Iside il cui corpo doveva essere a poca distanza. Cercò ma non la trovò, fino a quando sua figlia le fece segno di tacere indicando l’unico sarcofago coperto nella cella.

                                                                          ***

Ferruccio rimuginò le parole del danese arrestato. Se non fosse stato sicuro che l’elisir della verità era infallibile avrebbe potuto credere che quello stesse recitando il catechismo di un fanatico religioso. La differenza era che questa volta non si citava un Maometto o un Cristo distorti e devianti dai dogma originali.

Rilesse le parole che il traduttore danese gli aveva trascritto. Meditò sulla frase. ”E Odino diede un messaggio a Freja Roderikdatter, figlia di Roderik, e lei iniziò la sua terza vita. Un tempo donna di mondo, sangue ispano italico, vedova tre volte e alla fine nuovamente sposa del falso dio cristiano nella sua nuova patria, poi convertita alla vera fede negli dei norreni e pronta a vendicarli, dopo la loro caduta, il Ragnarok a causa dei Giganti e del traditore Loki che lei sconfiggerà riportando la vita su Midgaard, il Mondo.”

Guardatevi dai falsi profeti, pensò, compatendo la buona fede di quell’uomo. Poi cercò di tirare le somme. Lukia non era danese, bensì mezza italiana e mezza spagnola. Figlia di un’italiana e di un certo Roderik, Roderico. Rodrigo. Un nome spagnolo abbastanza comune. Sposa e vedova di uomini e infine di Dio, ossia suora. Un nome gli rintronò nella testa.

Una persona in vista, bella e affascinante. Prima intrigante, poi maritata nuovamente a un nobile e diventata mecenate di artisti. Ma resa nuovamente vedova dopo la morte dell’ultimo sposo, vittima delle armi di Venezia, durante la guerra in cui si era schierato dalla parte dei nemici della Serenissima. E lei era sparita in silenzio. Un silenzio che aveva fatto molto rumore per anni; ci si era chiesto dove fosse finita, creando miti che fosse morta o in esilio volontario.

Solo ora sapeva che aveva lasciato l’Italia per farsi monaca in Danimarca. E adesso capiva l’odio che poteva portare per la Serenissima che le aveva ucciso l’amato sposo. Alfonso D’Este, duca di Ferrara, l’unico uomo che lei avesse mai amato. Lei, la figlia di Rodrigo Borgia, Papa Alessandro III, e sorella di Cesare, Lucrezia. Lukia.

                                                                        ***

Il luogotenente Marelli era ligio al dovere e ubbidiva agli ordini. I turchi stavano mobilitando e prima o poi avrebbero iniziato le ostilità. Ma aviatori ed equipaggi di submarem italiani avrebbero avuto la meglio su fanti e marinai di superficie ottomani. E lui e i dieci fanti avrebbero prima o poi ricevuto la notizia della vittoria e il Doge avrebbe lodato tutte le forze armate.

Anche quelli che come lui avevano contribuito alla guerra oziando a guardia di un pugno di sassi, un vulcano, e una spia in esilio. L’ultimo luogo che un ammiraglio ottomano con il minimo senso strategico avrebbe attaccato era Stromboli. Lo sbadiglio gli morì in bocca non appena sentì la sentinella piazzata fuori dalla porta della caserma gridare un «chi va là?» svogliato.

«Mamma li turchi!» esclamò ridendo uno dei quattro subalterni intenti a giocare a dadi.

Il soldato di guardia parlottò e una voce femminile rispose, con accento del sud.

La monaca di Malta, certo, l’unica femmina nel raggio di miglia. Abbastanza attraente anche se matura. Purtroppo sposa del Signore, che sicuramente le aveva perdonato e fatto la predica che le spie erano come Giuda. Il luogotenente ordinò di farla entrare.

Suor Orsola era stata un tempo madre badessa e ora nonostante l’esilio manteneva la dignità del suo vecchio rango. Un fantasma del passato.

«In cosa posso servirla, sorella?» chiese il luogotenente.

«Voglio contribuire alla guerra» rispose, risoluta.

«Apprezzo il vostro patriottismo, sia per l’Italia che la Spagna e anche la Fede cristiana. Dio è con noi ma vi basterà recitare una preghiera in più e Lui calcherà la mano contro gli infedeli. E adesso andate in pace, sia lodato Gesù Cristo.» Fece cenno di andarsene.

«E sempre sia lodato» rispose quella, allungò le mani in avanti come per dare una benedizione. Poi dalle maniche della tonaca uscì del fumo che si dilagò per la stanza. Il luogotenente vide la monaca estrarre una strana maschera e mettersela in volto. Cercò di afferrare la spada, ma si sentì quasi svenire. La voce della suora usciva distorta dal volto coperto, come quella di un demone.

«Il mio contributo non è per la Serenissima, ma contro questa Repubblica decadente.»

Marelli vide i soldati accasciarsi, e gli altri entrare e venire anche loro avvolti dalla nuvola. La sentinella fece il suo ingresso e cadde anch’essa. Il luogotenente vedeva, ma non poteva muoversi. E la vista si fece sempre più velata. Forse per via del fumo, o forse per via della morte che lo stava ghermendo. Mentre la suora usciva, sentì la vita che faceva altrettanto.

CONTINUA…

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di Paolo Ninzatti

Racconto breve ambientato nell’universo del romanzo “Le ali del serpente” dello stesso autore.

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