Donne Maledette 9/13
IX – Marta
Quella notte era calda e umida, la parete accostata al letto mi ributtava addosso tutto il sole che si era succhiata di giorno, mi svegliai che ancora era scuro, coi capelli appiccicati sul collo e la camicia da notte arrotolata intorno alle gambe.
Da un po’ di tempo sentivo male alla pancia e non riuscivo a stare ferma dentro al letto, così, di nascosto mi infilai la veste e uscii all’aria aperta.
Non è che non lo sapevo perché la pancia mi faceva male e pure perché da qualche mese mi andava tutto stretto, ma aspettavo il giorno buono per dirlo ad Angelino, dovevo aspettare di trovarlo solo perché non volevo farmi sentire dalla moglie”.
Angelino è un calzolaio, non è di queste parti, lui gira per i paesi a risuolare le scarpe a chi ce l’ha. E’ sposato con Vittorina, brutta quanto la fame e la miseria, con quattro capelli in testa e un culo che non entra nella porta; lui, invece, è alto, magro e poi è forestiero!
Mi fece un po’ di moine e io, ragazzina com’ero, quando m’ha detto che lasciava Vittorina qua a Giuggianello e mi portava co’ esso al nord l’ho creduto subito, povera scema!
Mi disse che quella notte mi aspettava l’orto dietro casa sua, gli dovevo dare quello che mi chiedeva e poi ce ne scappavamo insieme.
Tutta felice e contenta come una pasqua, io gli dissi subito sì senza nemmeno passare per il forse e così fra le zucchine, i peperoni e le melanzane gli regalai il bene più prezioso che tenevo.
Quella notte era calda dicevo, uscita di casa a prendere aria pensai che fosse proprio il momento giusto di raccontare tutto ad Angelino, a quell’ora di sicuro Vittorina ronfava e si poteva parlare con calma.
Di nascosto di tutti, pure dei gatti, dei cani randagi e delle ombre arrivai sotto la finestra di casa sua e tirai un sassolino per svegliarlo, dovevo raccontargli in fretta che dopo quella dormita nell’orto la pancia mia si gonfiava come un otre e dirgli che dovevamo sbrigarci a partire prima che mio padre se ne accorgesse e mi crepasse.
Un sassolino dopo l’altro ne avrò tirati più di cinquanta, ma né s’aprivano gli scuri né qualcuno veniva all’uscio, allora mi feci un giretto intorno alla casa ed entrai nella vecchia stalla dove lui teneva l’attrezzatura da calzolaio, con mia grande sorpresa però vidi che là non c’era più niente: né carretto, né attrezzi.
“Che strano” pensai io, povera scema “Li tiene sempre qua”.
Rifeci il giro della casa e, tornata sotto il portoncino spinsi: era socchiuso, mi feci il segno della croce per pigliare coraggio e entrai come una ladra in quel poco spazio che si era fatto.
La casa era deserta, in camera da letto c’era rimasto solo un armadio vuoto e il materasso poggiato sulla rete, né abiti né altro.
Solo allora capii che Angelino se n’era andato via con la moglie e m’aveva lasciata sola con la pancia gonfia e la certezza di essere ammazzata a cinghiate e cucchiai di legno.
A quel punto che altro potevo fare se non scappare e non tornare più? Presa dalla paura e dalla vergogna cominciai a correre per i campi senza chiedermi dove andavo o come avrei fatto a campare da sola, senza un soldo e con un figlio in grembo.
Corsi e corsi fino a sfinirmi, il sole intanto sorgeva riportando luce e gente per le strade, se qualcuno mi avesse visto mi avrebbe subito riconosciuta e riportata di sicuro a casa, volente o nolente, l’unica cosa da fare era correre sulla strada di Serravecchia verso Quattromacine e là infilarmi nei campi d’ulivi dove nessuno andava mai per timore d’incontrare la strega del fondo Tenenti.
Corsi finché le gambe non cedettero per la fatica, la fame e il dolore di essere strappate a ogni rovo, ero così stanca che mi addormentai di sasso.
Mi risvegliai in un posto sconosciuto in mezzo alle pietre e pochi alberi secchi, provai ad alzarmi ma i dolori di pancia mi fecero ricadere a terra.
Passai tutta l’estate laggiù cibandomi di quel che trovavo e rubando la frutta di notte negli orti.
Arrivò l’autunno che la pancia mi scoppiava e la paura di partorire mi faceva trattenere il fiato, anche se non avevo mai provato i dolori delle doglie, avevo sentito le urla di mia madre quando era nato mio fratello, mai l’avevo sentita imprecare Gesù e mai più dopo d’allora la sentii rifarlo.
Un mattino all’alba capii che era inutile continuare a trattenere il fiato, bisognava lasciarsi andare e via, sapevo che da sola non ce l’avrei fatta a partorire perciò scavai una buca e mi c’infilai aspettando che Dio o chi per lui mi venisse a prendere.
Non fu nessuno di chi mi aspettavo ad avvicinarsi, era una vecchia storta e malvestita: “Di sicuro è la morte” pensai tremante raggomitolandomi per la paura. Lei sembrò leggermi il pensiero però non si offese, mi parlò in un modo strano e dolce accarezzandomi la fronte fino a convincermi di potermi fidare.
“Muoio dal dolore” le dissi con un filo di voce, lei fece sì con la testa e mi passò la mano sulla pancia massaggiando in tondo, poi si allontanò lasciandomi da sola lì a terra, sudata e tremante di paura a mordere l’orlo del vestito mentre mi contorcevo dai dolori.
Quando tornò portava una brocca e una zucca vuota, mi aiutò a bere tenendomi il capo sulle sue gambe, continuando ad accarezzarmi la fronte e massaggiarmi la pancia.
Non so quanto tempo siamo rimaste così, so solo che a un certo punto mi sembrò di sentire un nodo che si scioglieva, sentii umido fra le cosce e ritornarmi il calore in tutto il corpo.
La vecchia mi poggiò la testa sul suo scialle attorcigliato poi mi scoprì le gambe gettandomi le vesti sopra il viso; io la feci fare finché non ebbe finito, allora mi scoprì il viso, mi accarezzò ancora la fronte e pianse a lungo.
Lasciai che si sfogasse e alla fine le chiesi di sollevarmi un poco, fu allora che, tenendomi a lei come potevo lo vidi: era un bambino bello come il sole e anche di più!
Era il mio ed era bello davvero! Bello come mai ho visto il bello, più bello di San Giovanni dipinto sul muro della chiesa, dormiva su una pelle di pecora nera, nudo e bianco.
Ancora stretta alla vecchia con la testa che mi girava, restai a guardarlo come si guarda un bambino appena nato cercando nel taglio degli occhi o nelle fattezze del naso qualche rassomiglianza, ma lui non somigliava a nessuno, era tanto bello che non so nemmeno dire come era fatto:
sembrava di vetro lucente, coi capelli rossi, la bocca di petali di viola e il corpo di marmo scolpito; profumava di rosmarino, di fiori di cappero e di mare.
Chiesi se potevo toccarlo, come se non fosse mio, allora la vecchia me lo porse tenendomi stretta: era freddo e duro come una pietra, la guardai sorpresa e lei mi sussurrò dolce dolce “è morto”.
Una lacrima mi scivolò via bagnandogli la fronte, forse sperava di risvegliarlo col suo calore, chissà, poi mi addormentai piangendo piano.
Da allora non sono più tornata a Giuggianello, i primi tempi sono rimasta a fare compagnia alla vecchia, a imparare l’arte della levatrice e a riconoscere le erbe mediche, poi lei è morta ma io sono rimasta qua. Di tanto in tanto aiuto qualche disgraziata come me a partorire, ne ho visti di bimbi belli e vispi venire al mondo, ma nessuno di loro era bello come il mio.
Ho saputo che nei dintorni si dice che io sono una strega, qualcuno mi ha chiesto come mi chiamo, a nessuno ho mai detto di essere Marta né ho mai chiesto della mia famiglia, rispondo: Maledetta, mi chiamo Maledetta, questo è il nome che mi ha dato mia madre quando sono nata.
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