Donne Maledette 10/13
X – Afrodite
Sembra impossibile ma già dalla pancia di mia madre io avevo capito che per me non ci sarebbe mai stata vita facile là fuori.
Sentivo mio padre ripetere tutti i giorni alla mamma che era stufo di avere solo femmine per casa e che stavolta “perdio!” si aspettava un bel maschietto. La mamma invece, pur se dispiaciuta diceva che non si sentiva di poterlo accontentare.
“Pure stavolta sarà una femminuccia” gli rispondeva triste “Me lo sento”.
Tutti gli altri la pensavano come lei, la nonna piangeva dalla mattina alla sera perché aveva un brutto presentimento, pare che avesse sognato che insieme a me da quella pancia sarebbero usciti anche una decina di serpenti velenosi.
A quei tempi ancora non esistevano i mezzi moderni per conoscere con anticipo il sesso dei feti e così a tutti toccò aspettare i canonici nove mesi per saperne di più.
Io non lo so come accadde, se davvero ci fosse un serpentello insieme a me in quella pancia, se sia stata colpa mia che volevo accontentare il babbo o chissà come, fatto sta che il giorno che nacqui si scoprì che ero tutto: femminuccia e maschietto con un bel pisellino rosa, per l’appunto!
Fu un delirio. Il babbo non volle neppure vedermi, la mamma svenne, la levatrice urlò, il medico chiese un cordiale per riaversi, la nonna mi gettò nella vasca e provò a strapparmi il serpentello dalle gambe tirando quanto più poté, finché stanca di sentirmi urlare si rassegnò a lasciare tutto al suo posto, mi asciugò, mi guardò e mi sussurrò disperata:
“Figlia mia, avrai una vita terribile, decidi tu se vorrai essere un maschietto o una femminuccia, comunque sarà la tua scelta sappi che io ti appoggerò sempre, finché ci sarò.
Povera nonna! La sua promessa fu mantenuta per poco più d’un mese, poi morì di crepacuore nel vedere la mamma e il babbo ignorarmi e abbandonarmi al mio destino triste, come essa stessa aveva profetizzato.
La mia era una famiglia borghese, fui affidata a una balia da cui ricevetti le cure indispensabili destinate a un figlio: letto, latte, tetto.
A dispetto di tutti quelli che mi volevano morta crebbi invece bella, forte e sana e quantunque si fosse cercato a tutti i costi di nascondere al resto del mondo le mie nudità, la gente ancora una volta convinse tutti di avere un fiuto eccezionale per i segreti, non avevo neppure compiuto il terzo mese quando si seppe com’ero fatta là dove mai nessun estraneo aveva mai potuto guardare.
Tanta fu la perseveranza di chi voleva sapere e vedere, che mio padre cominciò persino a sentire il dovere di proteggermi ossessionato dal terrore che qualche malintenzionato potesse approfittare di quella ghiotta occasione per rapirmi, forse per vendermi al circo, chissà!
Cominciò così ad accompagnarmi ovunque e pretese che, quando lui fosse stato occupato qualcun altro lo avrebbe fatto al suo posto. Mi proteggeva sì, è vero, ma mai una volta mi ha preso per mano o mi ha donato una carezza, era evidente che la mia natura lo mettesse a disagio.
A scuola solo gli insegnanti mi chiamavano col mio vero nome, per tutti gli altri ero Rosaceleste che abbreviavano in Rosa o Celeste a seconda delle necessità o delle occasioni; a me non dispiaceva affatto quel nomignolo, anzi, rispecchiava talmente la mia natura che mi sarebbe piaciuto essere chiamata così da tutti.
A dispetto delle tragiche previsioni della nonna, la prima parte della mia vita non fu così terribile, certo, ogni tanto venivo derisa da qualche compagno, perlopiù però ero difesa dagli altri e ben accetta, il mio carattere allegro e gioviale fece il resto aiutandomi a superare l’infanzia molto bene, fu subito dopo che arrivarono i guai.
A dodici anni ebbi il mio primo mestruo, i miei primi pannolini e miei primi disagi.
A quattordici la mia prima eiaculazione, la mia prima crisi isterica, la mia prima vera gioia.
Da allora in poi fu tutta una salita e compresi mio malgrado il significato delle parole di mia nonna: era ora di decidere da che lato schierarmi, che abiti indossare, se comportarmi da preda o predatore.
Di fatto avevo le fattezze di una donna, una voce femminile, non avevo peli né barba né baffi, mi crebbe un discreto seno e mi sentivo a mio agio sui tacchi scomodi, mi divertivo ad acconciarmi i miei bei capelli lunghi e a imbellettarmi, dunque la scelta era fatta: sarei stata una preda e all’inizio così mi comportai.
Ciò che presto scoprii però è che la maggior parte del genere maschile ha una mentalità ristretta e molto stravagante: desidera la donna in ogni sua parte concava ma guai a concedersi nelle proprie concavità trovandolo addirittura disonorevole!
Dunque poteva con tutta tranquillità disonorare ma mai essere disonorato e di conseguenza era preoccupato dal serpentello che pendeva davanti alla mia conca temendo che avesse potuto insinuarsi, magari cogliendolo di sorpresa.
Feci diversi tentativi, poi decisi di starmene per conto mio ma non durò molto, il mio bisogno di dare amore e riceverne era troppo per poter essere tenuto a freno, così decisi di rivolgermi al sesso femminile.
Devo dire che anche da quel lato ne incontrai di persone grette, alla fine però il mio affanno fu ripagato da Aurora, la donna più dolce dell’universo, il mio amore, il mio destino, la mia musa, la parte mancante di me. Per un bel po’ tutto filò liscio fin quando non decidemmo di partecipare alle famiglie che ci saremmo costruite un futuro insieme.
Mio padre ebbe un colpo apoplettico, rimase allettato per anni con lo sguardo spento e la saliva che la bocca non riusciva più a trattenere finché non morì, mia madre mi ripudiò, le mie sorelle mi tolsero il loro saluto e quello dei propri figli.
A casa di Aurora la reazione fu un poco diversa, nessuno si ammalò né la cacciò, comunque le fecero capire che se non fosse tornata nessuno avrebbe pianto la sua assenza.
Nel frattempo c’eravamo entrambe laureate in lettere, lei trovò a fatica una cattedra in una città vicina, io dovetti rassegnarmi a fare altro finché non decisi di dedicarmi alla scrittura che adoravo, in più era l’unica possibilità di guadagnare qualcosa restando nell’anonimato.
Scelsi il mio nome d’arte: Afrodite. Risultò accattivante sia per i lettori che per il mio editore torinese che senza mai chiedermene il significato pubblicò volentieri ogni mio scritto.
A quel punto credetti di aver trovato la pace, dico credetti perché seppi presto che dal mio vocabolario personale questa parola era stata esclusa: Aurora s’innamorò perdutamente del preside della scuola in cui insegnava lasciandomi sola, avevo appena venticinque anni.
Come dicevo, da tempo c’eravamo trasferite in un’altra città, in una casa grande con un bello studio e un salotto dove Aurora si dilettava a intrattenere i miei colleghi artisti che nel frattempo si erano fatti numerosi, adesso con le minime entrate delle mie pubblicazioni non potevo certo permettermi di continuare ad abitarci da sola.
La lasciai a malincuore dopo qualche mese trasferendomi per i primi tempi insieme a un mio amico musicista dove scoprimmo che la nostra convivenza era impossibile: io avevo bisogno di silenzio, lui di suoni.
Trovai allora una soffitta a poco prezzo, scarsa luce e molto freddo, per il momento era quel che potevo permettermi.
Non so come sia successo né so spiegarmi come le notizie peggiori trovino sempre una corsia preferenziale, fatto sta che dopo qualche mese in quella casa ricevetti l’inaspettata visita di mia madre.
“E tu?” le chiesi più sorpresa che indignata.
“Hai bisogno d’aiuto, sono qui per questo”
“Non avresti dovuto, sto bene, non preoccuparti”
“Sono tua madre!”
“Ah sì?”
“Sciocca!” rispose lei piccata guardandosi intorno con commiserazione “Avanti, prendi le tue cose e andiamo, torna a casa”
Non risposi, restai a guardarla stupita cercando di capire quale inganno nascondessero le pieghe delle sue profonde rughe.
“Sei ancora giovane e bella, puoi rifarti una vita, una vera, come tutti. Te la meriti”.
“Me la merito? Io ce l’ho una vita e me la sono meritata da sola!”
“Ho conosciuto un medico, un luminare, dice che può aiutarti, può… farti diventare una vera donna”.
“Non m’interessa”.
“Non essere sciocca, non vuoi una vita normale come quella di tutti?”
“No, non voglio essere normale, voglio essere me stessa…”
“E che cosa sei, te stessa?”
“Una persona!”
“Una persona infelice, vorrai dire!”
“No, una persona e basta!”
“Beh, vuoi o non vuoi, l’operazione la farai, è già tutto sistemato, il professore ti aspetta al suo ospedale fra tre giorni”.
“Allora digli che non m’interessa! Da quando in qua ti occupi dei miei problemi? Come osi intrometterti nella mia vita privata? Chi ti autorizza a decidere per mio conto?”
“Me stessa!” urlò lei con voce stridula “Anch’io voglio rifarmi una vita, ma se non ti aggiusterai non potrò farlo, non puoi permetterti di rovinare anche la mia esistenza, hai già ucciso tuo padre, vuoi ammazzare anche me?”
In quel momento rividi ogni frammento dei miei giorni, mi chiesi se davvero fosse mia la colpa di tutti i guai della mia famiglia, mi chiesi se davvero fossi stata io a voler nascere in quel modo per accontentare tutti facendoli invece tutti scontenti.
“Mi dispiace” sussurrai più a me stessa che a lei.
“Non è sufficiente” rispose lei “Se ti dispiace davvero fai ciò che devi!”
“Mi dispiace” ripetei, poi sentii girarmi il capo, mi appoggiai allo scrittoio proprio sulle forbici, non so dire cosa pensai in quel momento o se pensai qualcosa, mi alzai la gonna, tirai giù le mutandine e mi evirai con un colpo netto, forse furono due o tre, non so più.
Quando mi risvegliai stavo all’ospedale cui aveva accennato mia madre, lì scoprii che il luminare era il suo amante e capii il motivo per cui mi dovevano “riaggiustare”: il mio corpo buffo avrebbe screditato la sua fama.
Quel gesto assurdo mi aveva fatto perdere molto sangue, ricucirono alla meno peggio la ferita come poterono ma da allora non stetti più molto bene.
Adesso vivo in una clinica per persone disturbate, a volte ricevo qualche visita, raramente viene anche Aurora a trovarmi ma non la rivedo con piacere. Non vedo più nessuno con piacere in verità, preferisco restarmene nella mia stanza a scrivere le mie fiabe che sanno portarmi lontano e farmi sognare.
A volte penso che avrei potuto essere la persona più felice del mondo avendo ricevuto il privilegio di quel dono solo mio, allora mi chiedo perché le persone che più avrebbero dovuto godere della mia gioia abbiano fatto il possibile per rendermi infelice.
E’ stata invidia la loro, per non avere avuto il mio stesso privilegio? O è stato solo il timore della diversità a spingerle ad emarginarmi convinte che se tutto resta nella norma la vita può scorrere serena nel suo fiume monotono e tranquillo.
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